
ARTICOLO SCRITTO DA UNA LAUREATA IN STAGE IN UNA MULTINAIZONALE A MILANO
Per anni ci hanno raccontato che bastava studiare, laurearsi, formarsi con disciplina e passione. Che il titolo universitario sarebbe stato la chiave per entrare nel mondo del lavoro, la garanzia di un impiego stabile, ben retribuito, dignitoso. Oggi, quella promessa suona sempre più come una beffa.
Negli Stati Uniti, come in Europa, un numero crescente di neolaureati scopre che la laurea non basta più. Lo conferma una recente analisi pubblicata su Fortune: a fronte di un tasso di disoccupazione generalizzato basso, i giovani laureati restano ai margini del mercato del lavoro. Non trovano opportunità coerenti con il loro percorso formativo, o vengono assunti in ruoli sottoinquadrati e sottopagati, spesso temporanei, spesso precari. Non è l’intelligenza artificiale a toglier loro il lavoro. È un’economia che ha smesso di mantenere le sue promesse.
Il problema non è l’IA, è l’assorbimento sempre più debole dei nuovi profili da parte di un sistema produttivo in affanno. Julia Pollak, capo economista di ZipRecruiter, spiega chiaramente che la contrazione della domanda aggregata di lavoro nei settori più dinamici – tech compreso – è il vero colpevole. I laureati sono troppi rispetto ai posti qualificati disponibili, o forse sono le aziende a essere troppo lente nell’innovarsi e nell’assorbire nuove competenze.
Il paradosso è che nel pieno dell’era dell’intelligenza artificiale, non mancano i talenti, mancano le strategie per valorizzarli. E intanto cresce la frustrazione di una generazione che ha fatto tutto “secondo le regole” e si ritrova a rimettere in discussione ogni certezza: l’idea che l’istruzione sia un ascensore sociale, che il merito venga premiato, che il futuro sia almeno in parte prevedibile.
Il report di Goldman Sachs rilanciato da Assolombarda non aiuta a rassicurare: fino a 300 milioni di posti di lavoro nel mondo potrebbero essere automatizzati nei prossimi anni. Ma anche qui il messaggio è ambivalente. Perché non è detto che quei posti scompaiano nel nulla: potrebbero trasformarsi, evolvere, aprire nuovi orizzonti. Ma ciò accadrà solo se sapremo governare la transizione, non subirla.
Serve allora una nuova alleanza tra università, imprese e istituzioni. Serve un ripensamento radicale del valore della formazione, che oggi sembra inseguire titoli e competenze “alla moda” ma troppo spesso dimentica la realtà concreta del lavoro. Serve una politica industriale che accompagni l’innovazione con investimenti strutturali sull’occupazione giovanile, sulla mobilità sociale, sulla dignità del lavoro.
Finché non ci sarà questa svolta, l’IA resterà il bersaglio più facile. Ma sarà solo un alibi. Il vero fallimento non è tecnologico: è umano, politico, sistemico.
Intervista a Chiara, 26 anni, laureata eccellente e incerta sul futuro
D: Chiara, ti sei laureata con il massimo dei voti. Pensavi sarebbe bastato?
R: Onestamente sì. Mi dicevano: studia, fai esperienze, impara le lingue. Ho fatto tutto: Erasmus, stage curriculari, certificazioni extra. Eppure oggi sono qui, con una laurea “di valore” e uno stage non retribuito. Non mi sento fallita, mi sento tradita.
D: Cosa intendi?
R: Intendo che la laurea non è più una garanzia. È un punto di partenza, ma spesso… non porta da nessuna parte. Le aziende cercano junior con 3 anni di esperienza, non investono nella formazione. E molti colleghi, come me, stanno iniziando a pentirsi di aver studiato così tanto.
D: Ti spaventa l’arrivo dell’intelligenza artificiale sul lavoro?
R: Non più. All’inizio sì, pensavo che mi avrebbe sostituita. Ma poi ho capito: il problema non è l’IA, è che non c’è abbastanza lavoro qualificato nemmeno per gli umani. O meglio, ce n’è, ma è bloccato, mal pagato o destinato a pochi. È l’economia a non funzionare.
D: Ti senti sola in questa sensazione?
R: Assolutamente no. Siamo in tanti. È una generazione che sta scoprendo che l’ascensore sociale è rotto. E che deve imparare a salire a piedi, mentre chi è già ai piani alti si muove in elicottero.
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